
Varichina, dieci anni dal film
Il regista Antonio Palumbo racconta la nascita del film documentario Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo de Santis
Non ricordo chi disse che il bravo narratore è colui che sceglie di raccontare fatti che conosce bene. Ma chiunque sia, mi ha trasmesso un insegnamento che, con il tempo, ho verificato essere la ricetta più equilibrata per raccontare una storia. Sono passati dieci anni da quando abbiamo battuto il primo ciak di Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis, il mio film d’esordio, firmato insieme all’amica Mariangela Barbanente. Era esattamente il 20 Aprile 2015. Convocazione in via Ettore Fieramosca alle otto e trenta. Il ricordo mi rimette addosso l’adrenalina di quell’inizio. Perché giravo la mia prima opera importante, nella mia città, nel quartiere dove mio padre è nato, che conoscevo come le mie tasche. Il rione Libertà, di fatto un rione popolare gemello dell’adiacente e benestante Centro Murattiano, cresciuto attorno alla chiesa del Redentore, l’oratorio che, dal dopo guerra, aveva assunto il più alto grado di funzione socio istituzionale del quartiere. I racconti di mio padre tagliavano il tempo e intersecavano le vie dei ricordi, agganciandosi al presente attraverso personaggi immutabili; maschere di una commedia dell’arte levantina tra le quali Lorenzo Varichina assumeva di diritto il ruolo di indiscusso protagonista.
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Sono cresciuto a Bari a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ‘90. Alla fine degli anni ’80 cominciavo a uscire anche di sera, durante la settimana. Spesso rimanevo in giro dopo gli allenamenti di basket che, per un affare di famiglia, totalizzavano, insieme allo studio, la mia settimana. Bari era molto diversa da quella odierna: Bari Vecchia era off limits, la città era sporca, pericolosa, non c’erano i turisti, c’era un’identità di cui i baresi migliori si vergognavano. E non c’era molto da fare, soprattutto d’inverno, se non la pizza il fine settimana, il giovedi universitario allo Snoopy a Bitritto e il cinema una volta al mese. Nella migliore delle aspettative. Il tempo che rimaneva, se proprio in casa non volevi starci, lo potevi spendere a fumare su qualche panchina o andando in giro con il motorino o con l’amico che aveva già la macchina, a raccontarsi come cambiare il mondo, ascoltare Hits on Five e andare a “sfottere le puttane e i ricchioni”. Tra virgolette, perché il perbenismo cieco di chi non c’era, o chi non se ne ricorda, non renderebbe giustizia filologica al racconto. La violenza delle parole va connotata.

In quegli anni, quel linguaggio, non faceva impallidire nessuno. Neppure le signore che si vendevano lungo la strada per San Giorgio o i pochi omosessuali che frequentavano i pochi giardini pubblici attorno alla stazione. Tra questi, regina indiscussa, c’era lui, Lorenzo De Santis, in arte Varichina, soprannome rimastogli indelebilmente attaccato addosso fin da piccolo, quando era solito andare a vendere la candeggina porta a porta per conto della mamma. Varichina era ignorante, imprigionato in un fisico scimmiesco che diventava caricatura impreziosendosi di lunghi capelli biondo mesciati, vestiti succinti dai colori sgargianti e urla sguaiate foriere di frasi volgarissime. Come l’ha definito Giancarlo Di Paola, “era l’unica nota di colore in una città buia e grigia com’era Bari in quegli anni”.
Lorenzo Varichina l’avevo visto mille volte, mi spaventava e mi divertiva; i racconti su di lui si arricchivano di volta in volta di imprese epiche compiute tra il suo quartier generale, il giardino di piazza Cesare Battisti, la stazione ferroviaria e piazza Umberto. Che fossero storie reali, o frutto di fantasia, non ci importava. Ci divertivamo, finché non esagerava e, spesso tracimava la misura. Sembrava si divertisse a essere al centro dell’attenzione e noi, come spettatori di un avanspettacolo da film neorealista, potevamo passare il tempo vuoto di quella città inospitale. Ma col tempo, quel personaggio era sparito. Io vivevo a Roma, e Bari si scopriva bella e imparava a ballare.

Un articolo del 2013, a firma di Alberto Selvaggi, su La Gazzetta del Mezzogiorno accese la miccia che fece deflagrare nella mia memoria quel vissuto, aggiungendo particolari e riflessioni goliardiche sulla biografia di questo personaggio incastonato nella cultura popolare barese. E accese una curiosità che fino ad allora era forse rimasta latente: ma
Lorenzo De Santis, nell’arco della giornata, era sempre il personaggio Varichina o, come nella migliore tradizione dei supereroi, c’era un dietro le quinte che sfuggiva, a me come ai più? Contattai Mariangela che non conosceva il personaggio, ma, come me, fu mossa dalla voglia di ricercare cosa ci fosse dietro “la finta vita” di Lorenzo De Santis.
Insieme a Selvaggi riuscimmo a raccogliere una serie di notizie sconosciute alla memoria collettiva che rivelavano quello di cui eravamo in cerca per raccontare questa storia attraverso il cinema documentario. Il più sembrava fatto, avevamo una storia e avevamo trovato il modo di raccontarla. Ora bisognava girarla. Già. Il cinema è fatto di idee e di soldi. L’uno non sopravvive senza l’altro. Toccava trovare un produttore, ma non ci sentivamo particolarmente fiduciosi. Il progetto finì mestamente in un cassetto, mentre continuavo a cercare la mia identità artistica, tra le braccia di quella Roma che avevo scelto come mamma adottiva, provando a sostituire gli “Auè” con gli “Aò”. Ma Bari, evidentemente, reclamava la paternità. Una telefonata inaspettata cambiò le sorti di quel progetto e diede una svolta alla mia carriera.


Un bando dell’Apulia Film Commission, il Progetto Memoria, cercava progetti biografici su personaggi che avevano caratterizzato la storia della regione Puglia, in modo trasversale. Selvaggi era stato contattato da un regista che voleva coinvolgerlo su un film su Varichina da presentare al bando! All’improvviso sembrava che tutti avessero (ri)scoperto Varichina. Il giornalista ci chiese se avevamo ancora intenzione di fare il film: in caso contrario avrebbe acconsentito ad aiutare un altro regista che l’aveva contattato. Era novembre 2014, la scadenza il 5 dicembre ore 12.00. Io e Mariangela non volevamo perdere questo treno, ma avevamo poco più di due settimane per trovare una produzione che facesse da proponente, sistemare tutto il dossier e i mille incartamenti richiesti dalla burocrazia. Dopo una notte insonne a produrre e rivedere budget preventivi e note di regia, la mattina del 5 dicembre ero su un volo diretto a Mosca dove mi recavo per le riprese del mio progetto su San Nicola (Nicola-Cozze, kebab e Coca Cola).
Prima di spegnere il telefono, con l’aereo già pronto a decollare, il messaggio di Mariangela: “È tutto ok, stiamo applicando”. Ore 9:35. Atterro a Mosca e accendo il telefono intorno alle 12.30. Il messaggio di Mariangela : “Non siamo riusciti ad applicare entro l’orario stabilito, siamo fuori”. Respirai. Bestemmiai. Respirai ancora. Poi mandai un messaggio consolatorio alla co-autrice. Inutile fare veleno quando non puoi aggiustare le cose. “Volta pagina, come sempre” mi dissi facendo appello agli insegnamenti si Sun-Tzu per trarre energia dalle sconfitte.

E fu il karma a premiarmi, Sun-Tzu o forse San Nicola, visto che il giorno dopo, il 6 dicembre, sarebbe stata la sua festa ed io ero in Russia, patria indiscussa del culto ortodosso del Santo. L’intervento divino o un bug di sistema avevano fatto impallare il software del portale dell’AFC. Il nostro progetto, cosi come molti altri, era stato ammesso. Bevvi uno shot di vodka per festeggiare, nonostante non fosse ancora ora di pranzo. L’aperitivo sovietico, in cuor mio, suggellava la pratica. E dopo un mese, alla fine delle vacanze di Natale, ricevemmo la notizia che il progetto era stato finanziato. Di li a tre mesi avremmo battuto il primo ciak. Un mese di preparazione, dieci giorni di set, un altro mese di post-produzione con Mariangela oramai al nono mese di gravidanza e non per colpa mia. Sembra una vita fa, sembra incredibile: Rosemary Chimirri, l’organizzatrice generale, e Giampaolo Smiraglia, di fatto il delegato della piccola produzione romana che aveva appoggiato la nostra candidatura al buio, riuscirono a mettere su un film in assetto da guerra con soli ventimila Euro. Lordi!
Ci sono imprese che avvengono per una serie di congiunzioni astrali irripetibili e, su Varichina si sono intrecciati, attorno a me e Mariangela, lo stato di grazia di Totò Onnis che regala un’interpretazione sontuosa del protagonista, la lungimiranza del direttore della fotografia Luca La Vopa, le scene di Marianna Sciveres, i costumi di Giulia Barbanente, il make up di Loredana Caldarola, l’energia del rione Libertà, la benevolenza della Film Commission. Solo per citarne alcuni, evitando di doppiare lo scroll dei titoli di coda. Perché necessariamente, questo pezzo deve avere un limite editoriale. Quando del diario di questa avventura, potrei riempirci il giornale.
Antonio Palumbo, nato a Bari nel 1973, è un attore, regista e sceneggiatore barese. Dopo una carriera nel basket fino al 1997, si è formato come attore presso il Teatro Kismet O.per.A. di Bari, trasferendosi poi a Roma per proseguire gli studi. Ha esordito come regista teatrale nel 2003 con “Bossolo”, vincendo il Festival del Teatro di Mompeo e ottenendo una menzione speciale al Premio Fondi La Pastora nel 2004. Nel 2016 ha co-diretto il film “Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis”, presentato al Biografilm Festival. Palumbo ha anche recitato in film come “My Name Is Tanino” di Paolo Virzì e “Bell’epoker” di Nico Cirasola. Attualmente, insegna regia cinematografica e scrittura creativa presso l’Accademia delle Belle Arti di Bari. È ateo, anarchico e ipocondriaco. Ma cucina da dio