
Torto e Reverendo raccontano la Pooglia Tribe
Intervista ai fondatori della Pooglia Tribe, dalla Bari degli anni ’80 all’eredità di un gruppo che ha fatto la storia dell’hip hop italiano.
C’era un tempo non molto lontano in cui se nascevi in Puglia, non ti sentivi pugliese e non avresti mai pensato di presentarti in questo modo. Ogni città rivendicava le proprie peculiarità e non sembravano avevano nulla in comune, tranne i salentini che si riconoscevano un’identità storica e culturale più profonda. Prima che arrivasse la politica a costruire la narrazione della Puglia che tutti conosciamo oggi, in Salento fu la musica a raccontare a tutti chi erano e da dove venivano. Una musica che veniva dai Caraibi ma usava la lingua dei nonni, dando voce ai giovani e portando messaggi di aggregazione e orgoglio per la propria terra. Questa musica era il reggae e non era un’esperienza esclusiva dei salentini, seppur storicamente la più rilevante per quel processo di costruzione dell’identità. Il reggae era di casa anche nella Bari degli anni ’80, quando i sound system aprivano le porte di una nuova percezione della musica e nella Stanic occupata da ragazzi e ragazze nasceva l’esperienza collettiva della Giungla.
Il rap a Bari non nasce dall’imitazione della cultura hip hop americana, ma da un’ urgenza espressiva sostenuta dai riddim del reggae. Da questa scena unica in Italia nasce la Pooglia Tribe che, oltre ad aver avuto all’epoca lo stesso successo di gruppi hip hop oggi considerati storici, ebbero la visione di una Puglia unita nelle differenze attraverso la lingua e la musica. La grandezza di questa formazione fu quella di aver disegnato un progetto culturale in cui la narrazione non è legata alle logiche del mercato – che oggi vede identificare la Puglia con il territorio di volta in volta più in voga – ma rispetta la storia e le tradizioni di ciascuna zona. Una forza di opposizione in grado di contrastare l’egemonia dell’omologazione in tutte le sue forme, anche quelle future. Per questo, se sei nato in Puglia, la storia della Pooglia Tribe riguarda anche te a prescindere dal genere musicale. Ne abbiamo ricostruito la storia e la fortuna con i principali artefici del gruppo, Torto e Reverendo.
Com’era Bari negli anni ‘90 dal punto di vista culturale e in particolar modo musicale?
TORTO: “Siamo cresciuti ascoltando gruppi degli anni ’80 come gli Struggles e i Different style, che sono stati fondamentali per tutto il reggae italiano. Agli inizi degli anni ’90 seguivamo in Salento Militant P, il grande profeta del reggae barese che poi ha fondato i Sud Sound System. Nelle dancehall con i suoni Mudù e Mimmo Pizzutillo si prendeva il microfono, io rappavo in dialetto e Reverendo cantava. Negli anni ‘90 a Bari si suonava tantissimo ovunque, molto di più di quello che si può fare con le limitazioni di ora. In quel momento in Italia esplodevano i primi album hip hop come quelli degli Onda Rossa Posse, degli Isola Posse All Star, e soprattutto esplodevano i Sud Sound System”.
Come è nata la Pooglia Tribe?
REVERENDO: “Il termine Pooglia Tribe è stato inventato da Torto per un brano nell’album ‘Trenta Denari’ che abbiamo fatto con il nostro primo gruppo, Zona 45. Io e Torto all’epoca avevamo una trasmissione a radio Norba che si chiamava Zona Hip Hop, e facevamo freestyle in diretta coinvolgendo altri artisti. Inizia così a cristallizzarsi la formazione della Pooglia Tribe composta da sette persone di cui il nucleo eravamo io, Torto, Tuppi e l’Egitt di Zona45, più altri mc”.

Radio Norba vi chiese di fare una serie di date, tra cui una come spalla agli Articolo 31 a Bari. Da quell’incontro nasce l’album “La Pooglia Tribe” prodotto proprio da J Ax e dj Jad nel 2000.
REVERENDO: “Quando ci sentirono suonare dissero subito che volevano produrci. Da quel momento abbiamo iniziato a frequentare Milano per conoscerli, facendo lunghissimi viaggi della speranza in macchina. L’album è stato prodotto a Castellana Grotte da Paolo Ianattone, e poi l’abbiamo inviato per la post produzione agli Articolo 31. Scegliemmo come singolo un brano che avevo chiamato ‘Cime di Rap’. La grandezza di quest’ operazione fu che gli Articolo 31 tirarono fuori dalle tasche i loro soldi pur di realizzare un progetto in cui credevano.
L’ hip hop italiano non ha mai nascosto la sua insofferenza agli Articolo 31, tacciati di essere commerciali. Non siete stati influenzati da questa situazione quando avete accettato la loro proposta?
TORTO: “Venendo da anni di esperienza, eravamo interessati solo all’aspetto professionale, mica abbiamo fatto l’album con loro perché eravamo loro fan! Solo che mentre gli altri giocavano a fare i rapper, gli Articolo 31 facevano davvero la vita dei rapper. Non solo vivevano di musica, ma facevano campare anche gli altri rapper producendo i dischi. Nessun altro lo faceva. Però fu una scelta che ci costò soprattutto umanamente perché quando si seppe che avevamo accettato questa collaborazione tantissime persone che frequentavamo ogni giorno smisero di rivolgerci la parola. Ci fu un ostracismo in città pazzesco”.
REVERENDO: “Quando facemmo il disco al nostro interno c’era gente come Moddi MC che era stata ‘adottata’ da Neffa e Kaos, quindi c’era proprio il mito dei rapper considerati parte della scena. Alcuni fecero più fatica ad accettare la collaborazione con gli Articolo 31.
Così noi dicemmo a Moddi MC di prendere l’album e farlo ascoltare a Neffa, se voleva produrlo lui. Lo apprezzò ma nulla più”.


‘La Pooglia Tribe’ è un album irripetibile, attuale a più di venti anni di distanza dalla sua pubblicazione. Come nasce la cifra stilistica con cui avete scolpito una pietra miliare nella storia del rap italiano?
REVERENDO: “L’album è stato creato in un’atmosfera molto comunitaria, e i brani nascevano al momento cotti e mangiati. Per l’occasione avevamo allargato la formazione ad ancora più artisti, siamo 19 in tutto come riportano i credits dell’album. C’erano tantissimi musicisti e produttori, loro proponevano beats e noi facevamo le rime. Ad esempio, nel brano Manifesto, il beat era stato prodotto da tre ragazzi di San Giovanni Rotondo che si chiamavano Sonaslè, che significa ‘suona slang’. E come loro c’erano tantissime chicche”.
Visto che l’avete menzionato, ne approfitto per chiedervi di chi fossero le citazioni in ‘Manifesto’: la prima è Kurtis Blow, la seconda?
TORTO: “‘Beat Street’, film cult dell’hip hop”.


Tornando a ‘Cime di Rap‘ , il giornalista Damir Ivic scrive: “ fu in realtà un grandissimo successo di airplay radiofonico, ma catalogò tutta l’operazione nel folder della “one hit wonder”, della divertente hit estiva, quando in realtà c’era molto ma molto di più”. Siete d’accordo?
REVERENDO: “Noi rimanemmo in heavy rotation di tutte le radio nazionali per tutta l’estate, un successo paragonabile oggi a quello dei Boomdabash. Pensa se ci fosse stato il web! Ma non fu quel brano a condizionare la Pooglia Tribe, dopo abbiamo fatto degli errori”.
Cosa è successo alla Pooglia Tribe nei dieci anni tra il primo e secondo album?
TORTO: Molte persone erano diffidenti e si aspettavano la fregatura, non si capacitava del fatto che gente così importante avesse deciso di produrci solo per passione. Le differenze di vedute emersero subito dopo il primo album e perciò ci fermammo, ognuno prese le sue strade. Dalla Pooglia Tribe poi sono nati gruppi come gli Amish Dabbash e i Fuma Project. Poi nel 2010 ci ritrovammo però per la Pooglia Tribe il momento di massima espressione fu il primo album”.
REVERENDO: “Si presentò il limite delle situazioni collettive, c’era gente che non era matura per questo, e tante sensibilità diverse. Ti dico una cosa: ‘Gente che spera’ era un pezzo per i Pooglia Tribe, doveva essere il secondo singolo dopo ‘Cime di rap’ come lancio per un ipotetico secondo album. Era così forte che molti di noi volevano farlo uscire come singolo a sè, come si fa oggi, e così decisi di venderlo agli Articolo 31”.
Nel 2010 esce ‘Apulians’, un album ad altissima percentuale di reggae. Com’è nato?
REVERENDO: “È uno street album nato dalla collaborazione con ragazzi nuovi, in particolare dj Keedo che produsse un po’ di brani che mi piacevano. Cominciai a mettere i primi cantati, poi iniziò a lavorarci anche Torto e, e lo abbiamo prodotto sempre a Bari”.


In questo secondo album c’è una canzone ‘Dimmi come parli’ che parla di quanto la lingua locale sia parte della nostra identità. Uno degli ostacoli al rap in Italia fu inizialmente il fatto che la lingua italiana avesse meno sintesi rispetto all’inglese e perciò non era facilmente adattabile ai beat. Il dialetto recupera la sintesi che manca all’italiano?
TORTO: “Nelle dancehall c’erano i primi i toasting in dialetto, cioè il parlato sulle basi reggae. Io ho iniziato a fare rap con l’italiano, ma avevo come esempi gli SR Razza dalla Sardegna, e ovviamente la grande scuola de La Famiglia di Napoli. Poi sentendo altri rapper pugliesi, mi venne voglia di mettere insieme tutti i dialetti: San Giovanni Rotondo, Martina Franca, Locorotondo, Bari. Questo è il vero spirito della Pooglia Tribe. Effettivamente metricamente il dialetto ti permette di creare un sacco di parole tronche (in cui l’accento è sull’ultima sillaba n.d.r.) che non hai con l’italiano. Il rap in italiano forse è simile all’hip hop dall’America meridionale, come il Chicano rap o i Cypress Hill. Ma non è solo una questione di tecnica ma anche di significato, perchè il dialetto è la lingua delle emozioni. È una lingua vicino ai sentimenti, ad esempio per uno come me quando mi arrabbio mi scappa il dialetto, ma anche alla tradizione. Molti modi di dire in dialetto, con una sola frase, possono spiegare un sacco di cose.
Torto e Reverendo sono finiti in una rima, quando LoZio – questa volta con la formazione dei Fuma Project – in “Scrocca Ganja” dice di aver fatto con voi un corso diciamo di…sopravvivenza botanica. Oggi fate ancora corsi, ma sulla musica e sulla cultura hip hop, come raccontato anche dal servizio “Bari Jungle Brothers” realizzato dalla trasmissione Report.
REVERENDO: “Intanto, rispetto al corso di cui sopra, voglio dire che noi eravamo molto politicizzati ed eravamo antiproibizionisti, cosa che ora è scomparsa totalmente dall’agenda politica. Avevamo un approccio differente rispetto al tema delle varie dipendenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Tornando ad oggi, tra le varie attività lavorative, ci siamo creati uno spazio in cui condividere con la comunità il nostro sapere. Facciamo laboratori con ragazzi che vivono in situazioni particolari dal punto di vista sociale, e lo facciamo come se fosse la nostra missione. Ci bastano davvero pochi strumenti per tirare fuori dai ragazzi le loro emozioni più profonde, e ci rendiamo conto che c’è una grande fragilità proprio nella progettualità della propria vita. Questo noi tentiamo di fare: dare un modello costruttivo anche attraverso la costruzione di un semplice brano”.