
ALLA SCOPERTA DELL’ARTISTA CHE HA FATTO DELL’ARTE UNA METAFORA DI VITA
Scriveva Rilke: “Quando si vivono le domande, forse, piano piano, si finisce, senza accorgersene, col vivere dentro alle risposte celate in un giorno che non sappiamo”. È un verso che sembra contenere la poetica di Pamela Campagna, artista barese che attraverso l’arte interroga e ascolta. Le sue opere non pretendono risposte, ma aprono spazi interiori, richiamano sensazioni, evocano memorie. Nascono da un’urgenza di comprendere la nostra presenza nel mondo, e prendono forma unendo pensiero ed emozione, esperienza e materia.
Artista con una formazione economica e un’attitudine da viaggiatrice, Pamela ha vissuto per vent’anni in giro per il mondo. Dal 2018 è tornata a Bari dove ha aperto il suo ATELIER in via Celentano 50. A Siviglia fonda lo studio L-ABLE, e si dedica come graphic designer soprattutto a progetti di impegno sociale. Le sue opere sono state esposte in spazi prestigiosi come la sede di Nike Brazil a San Paolo, Poste Italiane a Roma, e il Mark Rothko Art Center in Lettonia. Il suo sguardo unisce rigore e leggerezza, progettualità e poesia.
“Da piccola trasformavo qualsiasi cosa trovassi. Mia madre mi insegnava l’uncinetto, ma io trovavo sempre un modo nuovo per chiuderlo” racconta Pamela, che fin da bambina ha fatto della sperimentazione la sua grammatica creativa. Oggi lavora con tecniche di sartoria tradizionale – tessitura, tombolo, ricamo – che reinterpreta con un approccio contemporaneo. Le sue opere si muovono nel campo della fiber art, ma rompono i confini del decorativo per approdare al figurativo, alla narrazione, al concetto.
Usa l’ikat, tessuto a trame tinte in anticipo, ma spesso lo disgrega per generare qualcosa che resiste tra passato e futuro. Nella serie BIG KNOTTHING e MIRAGE lavora su ordito e trama lasciando spazio tra le linee, come se l’immagine emergesse da un ricordo lontano. In MACROembroidery stravolge il ricamo, fissando fasci di fili con una sparachiodi: un gesto che trasforma la delicatezza in impatto visivo. Al centro di tutto, un filo, semplice e infinito, da cui prende forma un’arte eterea, minimale, tridimensionale.
Cosa ti ispira a confrontarti con il tuo processo creativo?
La mia ispirazione è all’origine spirituale: mi piace molto il tema della geometria sacra, i ritmi e le pause, la meditazione. L’opera d’arte realizza la mia ricerca di metafore della vita, è uno strumento per svelare qualcosa che sfugge. Qualcosa che io non voglio assolutamente definire: non voglio dare risposte, ma avere queste intuizioni e comunicarle. Voglio porre una domanda che non è evidente.
C’è un tema estetico che ritorna nella tua ricerca?
All’inizio ho lavorato molto sul concetto di grazia, che vedo svanire. Quello che oggi appare è troppo volgare per me, troppo esibito perché bisogna vendere. Già dieci anni fa vedevo svanire questa grazia tipica delle foto d’epoca – oggi magari foto profilo – e che le rende eterne. La riflessione sulla vita viene anche da un volto. Sarà la pellicola di allora, saranno i ritocchi che facevano… In quegli scatti, che fosse un uomo o una donna, brutto o bello, ricco o povero, c’era questo comune denominatore della grazia. L’arte per me è universale, non va via con le mode.


La categoria della grazia potrebbe legarti al figurativo. Ma in realtà poi tu hai lavorato in senso opposto, verso l’astrazione.
All’inizio lavoravo sui volti, deformandoli, esplorandone la trasformazione togliendo elementi, o aggiungendo luci e ombre con la tessitura. Non mi piace lavorare su un’identità precisa ma su quello che può generare dopo. Quando mi sono resa conto che la mia creatività era molto legata al volto, l’ho eliminato per visualizzare quello che avveniva negli incontri. Non più una singola persona ma più persone che si incontrano, e chiedermi cosa avviene. Quello che non vediamo l’ho creato con i fili. Come nella mia serie di opere God is made of two che è un lavoro totalmente astratto, proprio all’opposto del mio tema iniziale.
Come nasce l’intuizione di una nuova opera?
Parto dallo stupore che voglio realizzare e dalla tecnica. Per me viene prima il “come”, e poi l’idea. Ad esempio, in questo momento mi sento parte di un paesaggio, della tappezzeria della città. Così ho iniziato una serie di opere in cui voglio fare uno statement: cerco una via di uscita, ma allo stesso tempo mi porto dentro un pezzo di muro. Nella mia prima opera di questa serie Escape from the Landscape ho creato una sagoma femminile che si sovrappone perfettamente allo sfondo. La figura però si muove sulla linea dell’orizzonte, quindi sei tu a decidere se sarà parte del paesaggio o se scapperà.

Hai cercato questa domanda invisibile anche nei luoghi in cui hai vissuto?
Sì, e infatti mi sono sentita a casa in quelle città come New York dove c’è un incrocio di culture, la spiritualità era libera, e tu non ti senti mai realmente giudicato. Quello che ho cercato nei posti in cui sono andata a vivere era lo stimolo casuale: esci di casa, non hai una domanda, ma ci vai a sbattere contro. Questa per me è la cosa interessante della vita. A Bari invece mi succede di dover cercare costantemente delle cose interessanti.
Qual è stata la reazione della città quando hai aperto il tuo ATELIER in via Celentano?
L’ho aperto sei anni fa, avevo il pancione e ho voluto chiamarlo ATELIER proprio perché qui si fa l’arte, come tante altre attività. Devo dire che è piaciuto subito, anche in maniera trasversale, tra persone di qualsiasi estrazione sociale. Anche chi magari non frequenta né si interessa di cultura. Se l’arte la capiscono, più difficile è stato far comprendere il ruolo dell’artista. Oggi siamo molto abituati a personalizzare tutto, e ci vogliamo sovrapporre a chi invece ha creato l’opera.
Cosa manca al sistema culturale barese secondo te?
A Bari ci sono pochi spazi. Il cambiamento reale si avrebbe se tutti gli artisti, i creativi, gli autori, i musicisti uscissero alla luce del sole. Io ho avuto la possibilità, il coraggio, la testardaggine di aprire uno spazio e dire: “eccomi, sono un’artista”. L’ho chiamato ATELIER perché è un luogo dove si crea, come la farmacia o la macelleria. C’è troppa gente nascosta che si incontra nei bar, nelle librerie, nei pochi punti di ritrovo. Ma non è così: gli spazi degli artisti sono anche gli studi, e là vediamo che succede. Un posto adatto, ad esempio, sarebbe il Mercato del Pesce.
Perché secondo te non si riesce a creare una comunità artistica più coesa?
Essendoci pochissimi spazi, gli artisti stanno tutti lì a sgomitare. Quindi tendenzialmente si crea più competizione che contaminazione. Ovviamente, se ci fossero più possibilità, non ci sarebbe ragione. Anche se tutte le persone che conosco a Bari sono molto interessanti e collaborative, non c’è questo senso di comunità. Poi ci sono poche persone che scrivono di arte, e sembra che sia dato a loro tutto il potere. Per questo amo mettere il mio spazio a disposizione di altri artisti, soprattutto locali.