Nel 2010 un’enorme ed enigmatica struttura in ferro riempita di carbone spunta in piazza Ferrarese lasciando molti cittadini perplessi, alcuni persino preoccupati per il rischio che arrugginisca lasciata lì all’aperto. Nelle vicinanze non si trovavano indizi di cosa fosse e da dove provenisse questo elefantiaco assemblamento che sembrava agli occhi dei baresi un’astronave caduta dal cielo. Così qualcuno ci fa una bella tag, qualcun altro la usa come riparo per una pipì impellente, molti non perdono occasione di sottolineare quanto sia brutta, tutti sicuramente la guardano con enorme diffidenza, e alla fine cinque anni dopo il grande alieno di ferro scompare dalla piazza centrale della città, senza far rumore.
Il 2015 è l’anno in cui tutti i baresi amanti dell’arte e della cultura avrebbero voluto nascondere i propri natali: quella era la Carboniera, un’opera regalata alla città dell’artista greco Jannis Kounellis celebrato ed esposto in tutto il mondo in quanto esponente del movimento artistico definito Arte povera. Nascosta tra le mura della cosiddetta Cittadella della Cultura – dove l’unico spazio in cui si anima questa cultura è fondamentalmente la Biblioteca nazionale – Kounellis ha reclamato la restituzione del suo dono, immortalato proprio in questa nuova collocazione accanto ai bidoni della differenziata, anche se con un pizzico di ironia anche quella poteva essere interpretata come un’installazione site specific sul pensiero ecologico umano che va appunto dal carbone alla plastica. È bastato rimuovere gli ignari bidoni affinché questa collocazione fosse meno scandalosa? A giudicare dalle cronache, sì. Eppure, ogni volta che percorro il lungomare all’altezza di Via Brigata guardo la cima della carboniera spuntare da dietro le mura della biblioteca Nazionale, e penso che questa storia sia la migliore espressione dello stato della cultura a Bari: un’opera dal valore artistico inestimabile, sulla quale altre città costruirebbero un allestimento da offrire ai visitatori con un equo biglietto d’ingresso, giace in un angolo cieco di una cittadella fantasma e sconosciuta ai più.
Avevo sognato proprio nel 2010 dopo la magnifica mostra sull’arte povera al Margherita, di non dover più andare a Milano, Roma, Madrid, Berlino per mettermi a ragionare con artisti moderni e contemporanei attraverso le loro opere. Il dono di Kounellis e la vicenda che ne è seguita, è curiosamente avvenuta quando in quel particolare mandato la città non aveva di fatto un assessore alla Cultura, anche se nei cinque anni precedenti non ci era andata molto meglio visto che quest’assessorato era stato affidato a un pediatra. Aneddoti a parte, avevo continuato a sognare quando uno dopo l’altro i contenitori venivano restituiti alla città, e io ne seguivo le evoluzioni come giornalista di cultura: il Margherita, il Mercato, casa Piccinni, Santa Scolastica. Avevamo predisposto tutto per diventare una polo di arte da cui a cascata sarebbero nate tante culture tante quanto sono le manifestazioni dell’umano intelletto.
Bari poterebbe essere una città di cultura, ma sicuramente è una città di commercio, e quello di cui fruiamo oggi sottende alle leggi del mercato in cui troneggiano principalmente grandi eventi musicali e mostre pop, in cui si capisce – giustamente – l’indotto economico di questi contenuti ma anche un’identità del capoluogo molto al di sotto di ciò che può veramente offrire. Ed ecco delinearsi sempre più a fuoco la grande lacuna di Bari: la rappresentazione di sé ai cittadini, agli operatori e infine al mondo intero del proprio patrimonio in termini di architettura, arte, letteratura, cucina, teatro, cinema e musica dall’antico al contemporaneo.
Maestrale magazine vuole riempire questa lacuna con il racconto del tesoro ignoro di questa città, che non offre solo focaccia e birra. Vuole essere un blog di informazione verso i turisti, attraverso i quali abbiamo imparato a vedere Bari con occhi diversi, ma soprattutto verso gli stessi baresi che formano in ultimo la società e la politica, sperando di aggiungere una punta di consapevolezza in più con cui smussare un certo atteggiamento di sudditanza che abbiamo nei confronti di chi viene qui ad organizzare eventi. Perché non possiamo essere riconosciuti per ciò che nemmeno conosciamo, e in questa direzione sulle ali del Maestrale il sogno continua.