La grande “Idea” dell’Abate Gimma
La storia della prima letteratura italiana e di come arrivò seconda
“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” disse – come vuole la tradizione – Massimo D’Azeglio dopo l’unificazione politica dell’Italia nel 1871. In effetti il Risorgimento arriva a manifestare l’identità di una nazione nata per ultima in Europa. Il ‘600 e il ‘700 hanno visto la dominazione politica francese, mentre la letteratura spagnola dava alla vita Don Chisciotte, e quella inglese trovava un padre in Shakespeare. L’Italia non se la cavava benissimo. Secondo una certa visione della storia italiana, momenti di decadenza si alternano a rinascite, come quella appunto del Rinascimento cinquecentesco che però poi apre le porte al declino dei due secoli successivi. Questi sono i secoli della Controriforma, della paralisi completa dello sviluppo tecnologico e scientifico in Italia, ancor più accentuata in un Mezzogiorno feudo della Spagna.
Nelle arti lo stile barocco tentava di riempire questo senso di decadenza diffuso, accentuato nella letteratura dallo smarrimento dei poeti. Se questi secoli non conobbero impulsi letterari in Italia, la nuova prospettiva scientifica fu terreno fertile per la nascita nel 1772 della Storia della Letteratura Italiana di Girolamo Tiraboschi. Non un evento letterario in sé ma ugualmente fondamentale per l’esistenza della letteratura italiana. Solo che questo non fu il primo tentativo, come i manuali di storia spesso dicono, di un’operazione del genere. Prima della Storia, infatti, ci fu un’Idea quella di un abate nato e insediato a Bari, che cinquant’anni prima del Tiraboschi aveva tentato di imbrigliare le complesse questioni dietro i concetti stessi di lingua italiana e letteratura italiana. Il suo nome era Giacinto Gimma ed era uno studioso gesuita che nel 1723 pubblicò l’ “Idea della storia dell’Italia letterata”, la prima raccolta cronologica della produzione scritta in lingua volgare italiana.
Chi era l’Abate Giacinto Gimma
Nato nel 1668 da una famiglia di modeste condizioni economiche e sociali, Gimma studiò dai gesuiti e all’età di quindici anni inciampò in alcune lezioni tenute dal carmelitano calabrese Elia Astorini, determinanti per il suo orientamento intellettuale. Astorini era ambasciatore di un sapere alternativo, le cui radici affondano nella dimensione esoterica e magica del Medioevo, e poi sviluppatosi durante il Rinascimento con il recupero della logica e della retorica di Platone. Per Gimma si aprono le porte dei saperi non controllati dalla Chiesa, un mondo che aveva trovato la sua capitale a Napoli dove l’intellettuale barese si trasferisce per completare i suoi studi.
Rientrato a Bari nel 1696, Gimma acquista sempre più autorevolezza nella comunità letteraria italiana, impegnandosi persino nella rifondazione di un’antica accademia letteraria da lui rinominata Accademia degli Incuriosi, ma anche negli ambienti del clero barese. Fu papa Clemente XI ad assegnargli il canonicato, ovvero un’affiliazione alle attività della Cattedrale di Bari, e da allora la sua attività pastorale crebbe al punto da fargli guadagnare la nomina di Abate.
Gimma era un funzionario della Chiesa ma anche cittadino di una repubblica letteraria che si estendeva oltre le Alpi, e questo creava in lui una spinta al rinnovamento spesso bloccata dalle contingenze. Probabilmente aveva tutta l’intenzione di direzionare queste correnti verso la sua terra, come dimostra il tentativo di dare alle stampe un giornale letterario che purtroppo fallì per l’arretratezza e la generale scarsa propensione dei baresi in campo culturale.
“Anni sono mi venne questo capriccio e tentai di farne uscir uno [un giornale letterario] da questa città, fidandomi a molti libri nuovi che tengo, bastevoli a dar materia per sei mesi e potendone sperar di continuo dagli amici per questo effetto; e m’avea già accomodato quattro compagni a mio genio, che avrei indirizzato a fare i compendi de libri con gusto e frutto de’ lettori. Ma non essendo la stampa in questa città e trattando d’introdurla a nostre spese per questo effetto, non fu possibile, tuttoché il mio Arcivescovo mi promettesse l’aiuto. Vi bisognava un buon capitale di moneta che non ho potuto accumulare, e qualche negoziante, a cui prometteva parte del guadagno, non volle concorrere perché non ha inclinazione agli affari letterari”.
Sicuramente la scelta di vivere e lavorare a Bari non era dettata da necessità, dal momento che rifiutò diversi incarichi in importanti accademie in Italia. Anzi, proprio nella sua Idea afferma che le antiche grandezze di Bari avrebbero meritato di essere affidate a una storia più precisa e meglio definita di quella del Beatillo. Eppure forse fu anche la scelta di rimanere nella sua città natale, una provincia rispetto a centri di potere culturale riconosciuti come Napoli ma anche Venezia, che insieme ad altri fattori penalizzò l’opera di Giacinto Gimma.
L’ “Idea della storia dell’Italia letterata” dell’Abate Gimma e la sua fortuna
L’Idea della Storia dell’Italia letterata si pone una delle grandissime sfide dell’epoca: identificare una lingua che si possa definire italiana. Nel ‘700 il dialetto fiorentino di Dante e Petrarca era già considerato l’origine del volgare (ovvero la lingua alternativa al latino) ma allo stesso tempo rappresenta un nucleo troppo ridotto rispetto ai confini che l’italiano aveva sempre più allargato nel corso dei secoli. A questa ricerca, gli intellettuali dell’epoca aggiungevano una questione da cui sentivano di non poter prescindere, ovvero definire quale fosse il genere di testo da prendere come fonte. Questo perché nello sviluppo delle lingue nazionali le singole opere sono state fondamentali, ad esempio nello spagnolo grande impulso fu dato dai testi burocratici, mentre il francese era considerato lingua per eccellenza della prosa.
Alla questione sul nucleo fondante della lingua, Gimma ebbe il merito di rispondere con l’individuazione di elementi che tutt’oggi sono considerati imprescindibili. Nel capitolo introduttivo alla sua Idea, Gimma dimostra di essere orgogliosamente consapevole del peso della nostra tradizione cristiana e latina, descrivendo l’identità culturale italiana come due cervi, a rappresentare le due anime, che attraversando il mare si stringono l’uno all’altro, così che «l’uno sopra la groppa dell’altro appoggia il capo e le corna, e l’uno all’altro porge aiuto». Ma la vera innovazione della sua opera fu l’ampliamento della concezione di letteratura, fino ad allora aggrappato alla sola poesia, includendo sia la prosa che la produzione scientifica. Questa scelta è figlia della sua cultura e risulta essere un importante precedente nella concezione multidisciplinare delle arti in cui noi identifichiamo la caratteristica principale del contemporaneo.
Se leggiamo il titolo completo dell’opera possiamo averne una visione più chiara:
Quest’idea rivoluzionaria servì alla battaglia ideologica del Gimma, ma purtroppo posizionò la sua Idea troppo lontano dal canone letterario per come era inteso da quei letterati italiani che, a differenza sua, erano più vicini ai centri di potere culturale. Il problema sembra essere proprio nell’aver spostato la narrazione più su una Italia filosofica e giuridica senza dedicare altrettanta attenzione alla poesia. Anche Tiraboschi voleva realizzare una “storia dell’origine e dei progressi delle scienze in Italia”, ma a differenza di Gimma anche un’ampia sezione dedicata alla poesia volgare, che valse alla sua Storia della Letteratura il primato nella storiografia della letteratura italiana. Da ultimo, ma non meno fondamentale, Gimma aveva piegato la sua opera a un’altra battaglia, quella per il lustro e la gloria dell’Italia contro l’idea di decadenza della nazione promossa soprattutto dagli altri stati, per ovvi motivi politici. La costante invettiva contro gli “Stranieri” forse non rendeva l’Idea un libro facilmente pubblicabile già ad esempio a Venezia, dove Gimma aveva tentato senza successo, che all’epoca aveva una sua autonomia politica e diplomatica nel territorio italiano.
Se una serie di motivi non hanno consegnato agli onori della storia mainstream il nome di Giacinto Gimma, quegli stessi motivi possono essere oggi l’occasione della riscoperta di un intellettuale del ‘700 che in alcuni passaggi era praticamente contemporaneo. Come ad esempio la consapevolezza che la Storia non è una narrazione oggettiva ma l’espressione del potere di volta in volta dominante, e di fronte a questa evidenza Gimma lavora per includere in quella narrazione le storie particolari dei luoghi e delle persone invisibili perché lontane appunto da quei centri di potere dove si costruiva la Storia. Giacinto Gimma sembra mostrare lineamenti comuni agli intellettuali del Mezzogiorno di ogni epoca, il cui pensiero esce sempre con più fatica dai confini locali e quando riesce sono additati come geni, o qualche volte come pazzi.